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Critiche
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giugno 2018
La misura esatta del dolore
di Susanna Gualazzini
Non sono sicurissima che la definizione gli piaccia, sta di fatto che Dario Ballantini è stato definito un Giano bifronte, portatore di una sorta di doppia identità: quella pubblica che vive sul palcoscenico e che molti di noi conoscono, e quella privata, che si esprime nella solitudine del proprio studio d’artista. E mi viene da azzardare che questo dualismo forse affondi le radici in una sorta di nostalgia di pienezza, che è poi inconfutabile istanza per molti di noi.

Nasce un lavoro artistico che implica prima di tutto una manovra di effrazione della identità, luogo tradizionalmente inviolabile, un lavoro che porta Ballantini a esplorare nella sua faciestelevisiva il territorio sconosciuto dell’altro, in quella artistica il senso, egualmente sconosciuto, del nostro essere nel mondo.

È una pittura figlia di un rigoroso apprendistato livornese, in dialogo con gli indispensabili riferimenti all’artiglieria pesante dell’avanguardia artistica di primo Novecento: il cubofuturismo, la metafisica, il surrealismo, l’espressionismo tedesco, senza dimenticare Munch e Schiele. Nasce una sintassi pittorica con la quale Ballantini lavora su temi che, di fatto, sono trasversali alle epoche: primo fra tutti il tema della ossessione e della desolazione, evocato da territori periferici, costruiti sui volumi di fabbriche plumbee di sironiana memoria; spazi in bilico e sommossi, in perpetuo divenire eppure sempre asfittici. Sono luoghi abitati da un uomo che porta sul volto tutta l’allucinato stupore del proprio essere, una sorta di “vittima vivente”, un reduce di guerra, di tutte le guerre. Il volto congelato in un ghigno di maschera o un sorriso struggente e il corpo stilizzato, squadernato dalla propria stessa storia: un corpo che si fa largo fra le macerie delle cose, in un mondo a brandelli.

Di qui, si rende necessaria una riflessione sulla tecnica: Ballantini lavora soprattutto sul rapporto fra la figura e lo spazio, e lo fa attraverso il colore: sempre gestito a fini espressivi e mai narrativi, il colore è selvaggio, ruvido e veloce, non racconta un pensiero ma ne esprime la forza espressiva.  E’ un colore portato da una pennellata certa, perentoria, sempre pronta però a ricomporsi in una impaginazione controllatissima. Perché Ballantini ha solido il senso della composizione. Ecco allora che questa ingegnosa palette cromatica fa della tela un vero e proprio territorio di forze e ci sbatte addosso livelli di profondità anche, e uso una parola forte, spirituale che, empaticamente, non possiamo non sentire come nostri.

Sono luoghi della coscienza, quelli che Ballantini evoca, luoghi in cui il nostro essere  è figura in cammino, e le sue destinazioni sono infinite quanto incerte.